La rendicontazione di sostenibilità. Evoluzione, linee guida ed esperienze in imprese, amministrazioni pubbliche e aziende non profit

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Autore: 
Paolo Ricci - Benedetta Siboni - Maria Teresa Nardo
ISBN: 
978-88-6659-069-9
Numero pagine: 
372
Data di pubblicazione: 
2014
Prezzo: €59,00
€59,00

ebook € 45,00

DOI: 10.17408/FC/590699

 

Il volume approfondisce, sia da un punto di vista teorico sia in una prospettiva empirica, il tema della rendicontazione di sostenibilità in ambito aziendale, argomento di estrema attualità che necessita di continui approfondimenti e di ulteriori riflessioni.
Il lavoro, sviluppandosi complessivamente in sette capitoli, prende in esame le realtà profit, pubblica e non profit. Il primo capitolo si concentra sull’evoluzione storica della responsabilità sociale e sull’affermazione della sostenibilità e dei modelli di rendicontazione nelle imprese. Il secondo capitolo approfondisce la rendicontazione di sostenibilità nel comparto pubblico locale, analizzando la letteratura e le linee guida con particolare riferimento agli enti locali, aziende sanitarie ed aziende dei servizi alla persona. Il terzo capitolo presenta un’analisi aggiornata della rendicontazione nelle regioni italiane. Il quarto capitolo esamina le prime esperienze di rendicontazione negli uffici giudiziari, alla luce di un recente progetto di diffusione delle buone pratiche sviluppato a livello Ministeriale. Il quinto capitolo focalizza l’attenzione sulle università, trattando il mondo della conoscenza e il capitale intellettuale, sempre nella necessaria prospettiva della rendicontazione di sostenibilità. Il sesto capitolo sviluppa una riflessione sul settore non profit, settore dall’evoluzione relativamente giovane, ma cruciale per il progresso economico e relazionale della contemporaneità. Il settimo capitolo, infine, riporta l’analisi di alcune esperienze di rendicontazione di sostenibilità maturate da aziende impegnate in diversi settori e con finalità complesse.

Paolo Ricci è Professore ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche presso l’Università degli Studi del Sannio nonché incaricato presso l’Università degli Studi Roma Tre. Attualmente presiede l’Associazione nazionale per la ricerca scientifica sul bilancio sociale (Gbs) di Milano. Si occupa di accountability pubblica e di rendicontazione sociale.

Benedetta Siboni è Ricercatrice confermata di Economia aziendale presso l'Università di Bologna. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la responsabilità sociale e la pianificazione e rendicontazione di sostenibilità nel settore pubblico e non profit. È stata componente del gruppo sul bilancio sociale costituito dall'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali presso il Ministero dell’Interno.

Maria Teresa Nardo è dottore di ricerca in Economia e gestione delle amministrazioni pubbliche. È stata docente di Economia aziendale e di Econo-mia delle aziende non profit presso la Facoltà di Economia dell’Università della Calabria. È autrice di pubblicazioni riguardanti il sistema di pianificazione e controllo, la valutazione dei risultati e la rendicontazione sociale.

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 Introduzione (di Paolo Ricci)

Non è facile oggi spiegare il perché di un libro sulla rendicontazione di sostenibilità, sulla sua evoluzione, sulle principali linee guida e di indirizzo che possono applicarsi, sulle esperienze significative delle imprese, delle amministrazioni pubbliche e delle aziende non profit. Gli ultimi decenni si sono, infatti, caratterizzati per una scarsa reale attenzione alle questioni collegate alla sostenibilità e soprattutto al suo concreto perseguimento. La stessa crisi del 2008 sembra aver reso una testimonianza molto amara sulla insostenibilità di alcuni processi economico,1] di un particolare modo di intendere l’impresa e il suo funzionamento[2]. La irresponsabilità sociale, determinatasi anche tradendo alcuni fondamentali principi aziendali, sembra aver prevalso ed efficacemente pervaso culture e comportamenti. Se dovessimo limitare la nostra osservazione solo agli anni più recenti, potremmo anche affermare che la sostenibilità abbia registrato più fallimenti che successi: povertà diffusa, disuguaglianze crescenti, diritti umani fondamentali negati, ripetuti disastri ambientali, sono segni tangibili e indiscutibili del nostro tempo. Le imprese, per effetto del processo di globalizzazione, ma non solo, hanno conosciuto fenomeni di portata eccezionale, tra loro fortemente interrelati, attraversati da complessi meccanismi di causa-effetto. Fenomeni emersi con la crisi e che di fatto hanno riproposto all’attenzione degli studiosi riflessioni sui principali paradigmi aziendali e sulle loro mutevoli condizioni di esistenza. Volendo, potremmo riassumerli disordinatamente in:
1. un incremento senza eguali della competizione mondiale: nuovi mercati e nuovi consumi ma anche accese e incontrollate spinte concorrenziali. Cina, India, Brasile, hanno dato nuovo impulso e linfa, seppure con tante contraddizioni, ad un capitalismo stanco e stremato, offrendo modelli economici ibridi;
2. una crescita senza precedenti della dimensione delle imprese: enfatizzando solo i pregi e le virtù della grande dimensione, e riservando scarse considerazioni ai suoi limiti, Stati e governi hanno promosso e favorito soprattutto lo sviluppo dimensionale;
3. un significativo progressivo ribaltamento del rapporto tra economia reale ed economia finanziaria, a favore di quest’ultima, ha consentito la cattura dell’economia reale, determinando di fatto un rovesciamento delle priorità valoriali del sistema economico. L’impresa bancaria da infrastruttura si è trasformata in soggetto dominante dei processi decisionali;
4. una lenta metamorfosi del rapporto tra politica ed economia: la politica, in particolare, ha perso la propria egemonia abdicando al suo ruolo, favorendo l’affermazione del capitalismo tecno-nichilista, sena regole e senza controlli;
5. una pervasiva smaterializzazione della produzione economica e dei suoi fattori produttivi, e la contemporanea affermazione della centralità della conoscenza tecnica e dell’impiego della tecnologia, a scapito della cultura umanistica;
6. la costante e silenziosa spersonalizzazione (si legga pure disumanizzazione) dell’impresa, con la conseguente perdita di centralità dell’individuo, non più comunità di persone, lavoratori, fornitori, clienti, finanziatori;
7.   una assolutizzazione mitizzante dei principali risultati imprenditoriali ed in particolare del profitto, non tanto nella sua accezione di risultato economico dell’impresa, ma di mero lucro destinato esclusivamente al soggetto economico. Tale interpretazione, anche antropologica del profitto, ha prodotto effetti disastrosi essendo sicuramente antieconomica (e non solo antisociale): a) il profitto non è da considerare l’unico indicatore della economicità dell’impresa; b) pur tenendole ben distinte, devono essere necessariamente considerate entrambe le dimensioni del profitto: quella “generativa” (remunerativa) e quella “distributiva” (compensativa);
8.  una graduale deresponsabilizzazione economica e sociale dell’impresa: nell’assumere decisioni economiche, nel partecipare ai processi di sviluppo territoriale, nel definire anche modelli e soluzioni per cambiare e affrontare il futuro, ma anche nel condizionare e gestire il potere. Il debito di responsabilità più grande dell’impresa verso se stessa è rappresentato proprio dall’aver assecondato, inseguito e nel non aver immaginato soluzioni fuori da se stessa. Nell’impresa è sembrato compiersi tutto. L’impresa da strumento, dell’agire dell’uomo in campo economico, a fine.
Ma facciamo un passo indietro e proviamo a dare prima di tutto un breve contributo alla riflessione, si spera di qualche interesse, su tre ricorrenti imprescindibili concetti: socialità, rendicontazione, sostenibilità. La società, sia nell’approccio metodologico individualista sia in quello olistico, non è altro che l’insieme delle relazioni che intervengono tra gli individui, ma non è possibile escludere da tale insieme, in una accezione più ampia o allargata di “socialità”, anche i legami che gli individui, singolarmente considerati, e le comunità, che essi formano, realizzano con l’ambiente circostante e la natura. Ciò dovrebbe indurci a qualificare come sociale qualsiasi attività, causa o effetto, che trascende da ogni singolo individuo, pur essendo ad egli stesso connesso o da egli stesso determinato. Questa visualizzazione molto estesa del concetto di socialità, in buona sostanza tutto ciò che non è individuale ma con cui l’individuo si relaziona, ci porta a ritenere sottoinsiemi della categoria del sociale, non in senso gerarchico ma logico concettuale, tutti gli ambiti con cui l’individuo entra in contatto o abita, in primis l’ambiente fisico-naturale. In questa direzione, la responsabilità sociale dell’impresa, termine quest’ultimo qui usato in maniera generica per intendere qualunque entità organizzativa, si sostanzia nei doveri etici che tale entità assume nei confronti di tutti gli altri simili, di tutti gli individui, di tutti gli ambienti in cui interviene. Proseguendo, anche le forme di “rendicontazione”, attraverso cui si intende dar conto del proprio agire socialmente rilevante, risulterebbero sociali. Bilanci ambientali, bilanci di genere, bilanci di missione o di mandato e bilanci di sostenibilità possono essere considerati tutti strumenti di rendicontazione sociale. Prendendo in prestito dalle scienze naturali utili elementi classificatori, potremmo sostenere che il “Bilancio Sociale” rappresenti il genere, mentre le altre forme di rendicontazione rappresenterebbero le diverse specie, aventi caratteristiche comuni tra loro. Contrapposto approccio vedrebbe, invece, nel documento “Bilancio” il genere, e negli altri documenti, con specifiche nomenclature, le diverse specie[3]: ciò indurrebbe a ritenere il bilancio sociale una specie, alla stessa stregua del bilancio ambientale o del bilancio di sostenibilità. Seguendo tale ultima impostazione potrebbe, ancora, farsi discendere, per mezzo di un accurato esercizio teorico-pratico, un processo di ibridazione; talune recenti forme di rendicontazione sarebbero frutto, nella sostanza, di riproduzioni o di integrazioni tra specie diverse appartenenti allo stesso genere: il report integrato potrebbe probabilmente farsi rientrare in tale categoria[4].
Comunque sia e nonostante tutto, la rendicontazione non finanziaria, volendo utilizzare una denominazione in negativo o, meglio, una denominazione per esclusione, ha assunto nel tempo una posizione di un certo rilievo, sia nell’immaginario collettivo sia nelle pratiche aziendali, accompagnata da eterogenei interessi, professionali, scientifici e imprenditoriali. Diversi fattori hanno influito sulla sua diffusione, fattori in parte già utilizzati in dottrina per spiegare l’affermazione della responsabilità sociale; ma, in maniera quasi paradossale, la diffusione della rendicontazione sociale è risultata superiore alla diffusione degli stessi comportamenti socialmente responsabili. Ci sono naturalmente ottimi motivi per ritenere la rendicontazione sociale e, in generale, l’allargamento dell’oggetto della rendicontazione, come valido strumento per migliorare l’impresa e l’uomo che la governa, in quella prospettiva, oramai dominante, denominata di sostenibilità. La “sostenibilità”, al di là delle ufficiali, e oramai stantie, definizioni prefabbricate dall’ortodossia istituzionale[5], ma anche da buona parte della comunità scientifica, a volte anche sotto dettatura (della egemonica grande impresa multinazionale), non può più rappresentare una condizione meramente formale, astratta e indeclinabile dell’esistenza dell’impresa e delle istituzioni sociali contemporanee[6], un nobile ma debole tentativo di rendere compatibili, spesso solo finanziariamente, presente e futuro, di unire generazioni senza farle incontrare, senza farle discutere della prospettiva o della direzione del cammino comunitario, più in generale, dei sistemi valoriali della Terra-Patria, su cui realmente fondare il legame generazionale. Non è un caso se il riferimento più comune della sostenibilità sia proprio lo sviluppo, accezione prevalentemente, se non esclusivamente, economica e non il progresso o almeno la prosperità, accezioni in grado di cogliere e accogliere significati non solo economici dell’esistenza dell’uomo e delle sue organizzazioni. Seguendo, ma soprattutto provando ad applicare, le felici intuizioni di Edgar Morin[7], oggi la sostenibilità è soprattutto un obiettivo di governance, con cui affermare tre principi irrinunciabili per la sopravvivenza del pianeta:
- principio di solidarietà e di responsabilità: ognuno, senza eccezione, deve render conto;
- principio di pluralità: la presunta razionalità economica non può rimanere egemonica;
- principio di partecipazione: tutti devono poter prendere parte ai processi decisionali.
Lo scopo del volume appare subito chiaro quindi: fornire un contributo all’approfondimento teorico ed empirico di un tema dai confini instabili e dal futuro incerto: instabilità e incertezza conseguenze primarie della instabilità e incertezza sia dei modelli economici ancora attuali sia delle relazioni planetarie tra economia, finanza e politica. Il tema della sostenibilità, e della connessa rendicontazione in ambito aziendale, non è più dunque tema giovane, pur essendo ancora attuale nelle diverse dimensioni di studio in cui appare necessario affrontarlo, ma il presente lavoro tenta di realizzare anche un’opera di ringiovanimento, ampliando orizzonti e illuminando l’esperienza, nella speranza che quest’ultima si trasformi in coscienza e produca buoni risultati. Il volume, a cura delle giovani colleghe Maria Teresa Nardo e Benedetta Siboni, nonché del sottoscritto, raccoglie scritti teorici, riflessioni metodologiche ed esperienze rilevanti sul tema della rendicontazione di sostenibilità. Ad alcune premesse teoriche fondamentali, e allo stato dell’arte della letteratura scientifica e delle prassi nazionali, fanno seguito diversi contributi specialistici, alcuni brevi ed altri più ampi, che osservano criticamente e spiegano le realtà imprenditoriali, le aziende pubbliche e le aziende non profit alle prese con la rendicontazione sociale e di sostenibilità.

 

 

 


[1] La scienza economica continua sostanzialmente ad ignorare il secondo principio della termodinamica.

[2] Visione esclusivamente a breve termine e assolutizzazione del profitto.

[3] Nella nomenclatura binomiale di Carlo Linneo, ogni creatura vivente viene contraddistinta da due termini – il genere, con iniziale maiuscola, e la specie, con iniziale minuscola. Termini aggiuntivi, ad esempio la sottospecie, sono facoltativi. Di conseguenza dovremmo distinguere i diversi documenti in: Bilancio Sociale, Bilancio Sociale ambientale, Bilancio Sociale di genere, e così via.

[4] Come è noto l’unico limite delle specie ibride sarebbe costituito dalla non riproducibilità.

[5] La prima definizione riferibile alla sostenibilità è contenuta in: Commissione Mondiale sull’ambiente e sviluppo, Rapporto Brundtland, 1987: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”.

[6] Il capitalismo tecno-nichilista ha piuttosto generato una insostenibilità sociale.

[7] E. Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012.